Esiste da decenni e si chiama “childfree” il movimento americano di donne che non desiderano avere figli. È una realtà che esiste anche in Italia ma fa fatica a prendere piede perché qui da noi è ancora molto forte il mito della maternità, secondo cui una donna trova il vero scopo della propria vita solo quando diventa madre.
Eppure esistono moltissime donne che, talvolta anche fin da giovani, non sentono alcun desiderio di diventare madri e che addirittura scelgono di farsi sterilizzare chirurgicamente per non rischiare gravidanze indesiderate. Le motivazioni possono essere le più disparate, ma ciò che accomuna spesso queste persone è essere vittima di un pregiudizio secondo cui sarebbero aride ed egoiste.
Non è molto diverso da quello che succede alle donne che decidono di interrompere volontariamente una gravidanza: la società continua a guardarle con sospetto e un velo (a volte ben più di un velo) di biasimo. Se poi queste donne dopo una IVG addirittura non si sentono traumatizzate o in colpa, lì il biasimo si trasforma facilmente in disprezzo.
C’è questa idea di fondo che la maternità sia una dimensione quasi paradisiaca in cui la donna scopre la propria vera natura e gode nel sacrificare se stessa ai bisogni di un esserino del tutto dipendente da lei. Ma la verità è che la maternità è tutt’altro che facile e tutt’altro che rosea. È dura anche per chi un figlio lo ha tanto desiderato e cercato. In ogni caso essere madre non è un destino, è una scelta, è un atto di responsabilità verso un’altra persona che viene al mondo.
Io sono del tutto convinta che sia un atto di responsabilità anche decidere di non mettere al mondo un figlio. Una donna che decida di interrompere una gravidanza perché sente di non poter garantire ad un figlio l’accudimento materiale o affettivo che meriterebbe, sta facendo una scelta di responsabilità, tanto quanto la donna che decide di metterlo al mondo nonostante le difficoltà. Lo vedo continuamente in terapia, ogni donna prima o poi si confronta col tema della generatività e lo fa sulla base della propria storia, dei propri bisogni, dei propri desideri, delle circostanze in cui si trova. Lo fa e arriva a delle scelte che sono sempre motivate e pertanto andrebbero comprese, rispettate, non giudicate da nessuno, perché nessuno può coglierne totalmente l’essenza tranne la diretta interessata.
La maternità è un’esperienza del tutto personale, sia per chi la sente propria che per chi la avverte come estranea. Ci sono donne che da sempre sognano una famiglia numerosa, altre che provano disagio al pensiero di un figlio, altre che tentano in ogni modo di avere una gravidanza attraverso lunghi e difficili percorsi di procreazione assistita, altre che decidono di interromperne una o anche più di una nella vita quando restano incinte.
Sono esperienze personali e diverse ed è impossibile tracciare una mappa universale delle motivazioni che spingono una donna a volere figli e un’altra a non desiderarne affatto. Sono esperienze diverse ma al tempo stesso accomunate da una caratteristica: la estrema soggettività della dimensione della maternità.
Non bisogna necessariamente essere madri per essere materne e capaci di prendersi cura di qualcuno che si ama: amici, parenti, compagni/e, cani, gatti e conigli. E non è necessario procreare per essere generative a questo mondo. Moltissime donne che non hanno potuto o voluto mettere al mondo dei figli hanno cambiato il corso della storia, hanno dato il proprio prezioso contributo alla società, alla scienza, alla cultura, hanno lasciato un segno indelebile nelle vite di chi le ha conosciute. Una delle più importanti terapeute familiari, Virginia Satir, non ebbe figli e si occupò con successo enorme di aiutare bambini, adolescenti e le loro famiglie a risolvere i loro problemi e stare bene. Non è forse questo un atto generativo? Non è forse anche questo un modo di mettere o rimettere al mondo qualcuno o qualcosa?
Maternità e generatività non sempre coincidono con l’essere madre, così come essere madre non sempre coincide col partorire un figlio. In tutti i casi, il valore di una donna non sta nel dare alla luce dei figli. Ma, come scrisse Lawrence D.H., “nel dare alla luce se stessa, questo è il suo destino supremo e rischioso”.